Corte Costituzionale, sentenza n.28 dell’11.01.2021, depositata il 3.03.2021
Per mezzo della sentenza in commento la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 68, comma 3, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), nella parte in cui, per il caso di gravi patologie che richiedano terapie temporaneamente e/o parzialmente invalidanti, non esclude dal computo dei consentiti diciotto mesi di assenza per malattia i giorni di ricovero ospedaliero o di day hospital e quelli di assenza dovuti alle conseguenze certificate delle terapie.
La sentenza di accoglimento della questione di illegittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con ordinanza del 3 luglio 2019, iscritta al n. 195 del reg. ord. 2019, dell’art. 68, comma 3, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione è degna di particolare attenzione per una molteplicità di ragioni che attengono sia alla tecnica utilizzata per dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione normativa sotto il profilo della irrazionalità intrinseca per violazione dell’art. 3 della Costituzione, sia, ancora, per la rilevanza attribuita ai contratti collettivi che pur non potendo essere elevati a “tertium comparationis” sono configurati come il parametro a cui la Corte Costituzionale ancora le proprie valutazioni sulla irrazionalità del contesto normativo italiano sanzionando il ritardo della legislazione rispetto alla contrattazione collettiva e invitando il legislatore a misurare le conseguenze di tale ritardo alla luce del maggior dinamismo insito nel funzionamento e nella revisione periodica della contrattazione collettiva.
Ancora, di particolare rilevanza, è la modalità con la quale il giudice a quo ha formulato la questione di legittimità costituzionale intensificando la tutela dell’interesse legittimo correlato all’effetto caducatorio dell’atto amministrativo attraverso la concretezza dell’incidentalità del giudizio costituzionale.
La pronuncia, che si pone nel solco di un diffuso ricorso al criterio della razionalità intrinseca quale canone ermeneutico distinto da quello dalla ragionevolezza propone un’evoluzione della tecnica redazionale della Corte in materia di “moniti” al legislatore poiché introduce una sequenza del ragionamento decisorio che fà da ponte alla valutazione della irrazionalità e si concreta nel riferimento alla realtà fattuale da un lato con riguardo all’accertamento di un “progressivo sviluppo dei protocolli di cura per le gravi patologie, e in particolare delle cosiddette terapie salvavita con i loro pesanti effetti invalidanti” e dall’altro al modo in cui la contrattazione collettiva è stata ed è fisiologicamente riproduttiva del necessario dinamismo dei rapporti giuridici, oltre i limiti della propria loro classificazione normativa.
La sentenza, invero, senza sanzionare la legge sotto il profilo espresso della irragionevolezza coniuga al proprio interno gli effetti tipici del sindacato sulla ragionevolezza della legge al fine di “registrare” il ritardo del legislatore rispetto alla disciplina del rapporto di lavoro di tipo pubblicistico con riguardo alla necessaria incidenza sull’adempimento della prestazione lavorativa del lavoratore sottoposto alle terapie c.d. salvavita avuto riguardo ai relativi effetti invalidanti e il criterio della razionalità intrinseca per affermare il diritto alla non computabilità di tali assenze nel c.d. periodo di comporto del personale appartenente al Comparto Università, in relazione al necessario bilanciamento del diritto alla salute ex art. 32 Cost., assorbito dalla valutazione della irrazionalità intrinseca della normativa in vigore.
Non è il contratto collettivo in se stesso, dunque, ma la dinamicità che caratterizza la struttura e la adattabilità dei contenuti dei rapporti di lavoro alle esigenze dei lavoratori proprio della contrattazione collettiva a fondare la censura e il monito indirizzato al legislatore e a imporre, per l’immediato futuro, una “copertura” legislativa e generalizzata della disciplina contrattuale collettiva nel senso indicato dalla Consulta alla luce della livello di garanzia della maggior tutela apprestata dai contratti collettivi (e non solo da quello oggetto della specifica controversia).
La questione di legittimità costituzionale: l’input monitorio del giudice a quo amministrativo.
L’impatto monitorio della sentenza in commento dipende in larga misura dalla formulazione dell’ordinanza di rimessione della questione di legittimità costituzionale trasmessa dal Consiglio Superiore di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia alla Corte Costituzionale e dalla dirompente espansione che l’incidente di costituzionalità conferisce al giudizio amministrativo alterando il principio della domanda correlato all’effetto meramente demolitorio dell’atto impugnato.
La fattispecie, infatti, prende le mosse dal recesso datoriale per scadenza del periodo massimo di aspettativa per motivi di salute, con conseguente cessazione del rapporto di lavoro intimato per mezzo di apposito decreto rettorale ad una ricercatrice universitaria confermata, determinato dalla reiterata assenza della stessa nei due anni precedenti per un periodo superiore a complessivi diciotto mesi, ovvero al periodo di comporto garantito dalla normativa di riferimento.
La ricercatrice aveva impugnato il predetto decreto rettorale dinanzi al Tar Catania deducendone l’illegittimità per contrasto, in particolare, con l’art. 35, comma 14, del c.c.n.l. 2006 – 2009 comparto Università, secondo cui “in caso di gravi patologie che richiedano terapie temporaneamente e/o parzialmente invalidanti sono esclusi dal computo dei giorni di assenza per malattia di cui al comma 1 del presente articolo, oltre ai giorni di ricovero ospedaliero o di day hospital anche quelli di assenza dovuti alle conseguenze certificate delle terapie. Pertanto per i giorni anzidetti di assenza spetta l’intera retribuzione”, chiedendone contestualmente, la sospensione in via cautelare.
La sospensione cautelare veniva accordata dal Giudice di prime cure confermata dal CGA, ma all’esito dell’udienza pubblica di discussione il Tar respingeva il ricorso ritenendo che la norma di cui al richiamato art. 35, comma 14 c.c.n.l. 2006-2009 comparto Università non sia applicabile alla ricercatrice universitaria in quanto, ai sensi dell’art. 3, comma 2, d.lgs. 30.3.2001 n. 165, il rapporto di lavoro dei docenti e ricercatori universitari è sottoposto ad uno statuto speciale di diritto pubblico, le cui principali previsioni normative sono contenute nel d.P.R. 11.7.1980 n. 382, come modificato ed integrato dalla l. 9.12.1985 n. 705 e dalla 1. 18.3.1989 n. 118 rittenendo che tale conclusione trova conferma nell’art. 12 del contratto collettivo quadro per la definizione dei comparti di contrattazione per il quadriennio 2006-2009 (c.c.n.q.) dell’11.6.2007, il quale espressamente esclude dall’ambito di operatività di tale comparto i professori e ricercatori universitari.
La ricercatrice propone appello avverso la sentenza del Tar Catania chiedendone la sospensione.
Il CGA con ordinanza cautelare 28.9.2016 n. 629 ha disposto la sospensione della sentenza appellata e dei provvedimenti impugnati in prime cure ritenendo che le ragioni dell’appellante apparissero meritevoli di attento tempestivo approfondimento, sia sotto il profilo della dubbia conformità a costituzione degli orientamenti interpretativi adottati dal Giudice di primo grado, sia sotto quello della dubbia legittimità, dal punto di vista della competenza funzionale, del provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo.
Per mezzo dell’appello veniva censurata l’erroneità della sentenza per avere ritenuto inapplicabile ai docenti universitari le disposizioni di cui al richiamato art. 35, comma 14, del c.c.n.l. 2006 – 2009 – comparto Università, escludendo così dai relativi benefici la ricercatrice sul presupposto che l’inapplicabilità della disposizione contrattuale collettiva integrasse una discriminazione lesiva dell’art. 3 Cost., che garantisce il principio d’uguaglianza e dell’art. 32 Cost. che tutela il diritto alla salute di tutti i cittadini.
A parere dell’appellante un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni del c.c.n.l. avrebbe consentito di godere dei benefici discendenti dalla suddetta disposizione in caso di gravi patologie per il personale universitario, senza cioè escludere il personale docente.
Con sentenza parziale e istruttoria del 22.2.2018 n. 108 IL CDA riteneva in sintesi, che: 1) non fosse possibile applicare nel pubblico impiego non privatizzato l’invocato art. 35, comma 14, c.c.n.l. 2006 – 2009 – comparto Università; 2) non fosse nemmeno possibile una interpretazione dell’art. 68, t.u. n. 3/1957, “costituzionalmente orientata” nel senso di escludere dal computo del periodo massimo di assenza per malattia i periodi non computabili secondo il citato art. 35, comma 14, c.c.n.l. 2006 – 2009 – comparto Università; 3) sussistesse una oggettiva disparità di trattamento tra pubblico impiego non privatizzato e privatizzato, atteso che nel primo non si escludono dal computo del periodo massimo di assenza per malattia, in caso di gravi patologie, i giorni di ricovero e cura previsti dall’art. 35, comma 14, c.c.n.l. 2006 – 2009 – comparto Università; 4) occorresse approfondire in fatto la rilevanza della questione ai fini di un possibile incidente di costituzionalità.
Accertato in punto di fatto a mezzo di apposita istruttoria che la ricercatrice aveva effettivamente utilizzato tutte le tipologie di permesso consentite, che non residuassero ulteriori periodi fruibili e che il provvedimento impugnato non presentasse illegittimità derivanti da incompetenza funzionale dell’organo che lo aveva adottato, il Collegio ha ritenuto che la causa non potesse essere decisa senza sollevare incidente di costituzionalità.
E’ proprio il CGA a porre la questione circa la estensibilità dell’applicazione della disposizione di cui all’art. 35, comma 14, c.c.n.l. 2006 – 2009 – comparto Università al rapporto di pubblico impiego non privatizzato.
Il Collegio non dubita che tale previsione, di natura contrattuale, sia dettata per il rapporto di impiego privatizzato, e che pertanto la stessa non sia applicabile al rapporto di pubblico impiego non privatizzato, quale e’ quello del ricercatore universitario.
Il periodo di assenza per malattia, nel pubblico impiego non privatizzato, infatti, è disciplinato dagli artt. 68 e 70, d.P.R. n. 3/1957 che prevedono un periodo massimo di assenza continuata per malattia pari a diciotto mesi e un periodo massimo cumulato di assenza per malattia e per motivi di famiglia, pari a due anni e mezzo nel quinquennio (con possibilità di un’ulteriore estensione, su domanda, per altri sei mesi, e dunque per un totale di tre anni), senza escludere dal computo i periodi di assenza per grave patologia, per ricovero e intervento chirurgico e successive terapie salvavita.
Tuttavia, ritiene che tale disciplina integri una disparità di trattamento tra dipendenti pubblici in regime di impiego “privatizzato” e dipendenti pubblici in regime di impiego “non privatizzato”, in danno di questi ultimi, atteso che nel periodo massimo di assenza per malattia vengono computati anche i periodi di assenza per gravi patologie, come, nella specie, quella oncologica.
Si tratta, ad avviso del Collegio di discriminazione rilevante ai sensi degli artt. 3 e 32 Cost.
E’ lo stesso Collegio amministrativo ad affermare che la disparità di trattamento non è tuttavia superabile mediante applicazione diretta dell’art. 35 comma 14, c.c.n.l. 2006 – 2009 – comparto Università, trattandosi di previsione che non trova applicazione al rapporto di pubblico impiego non privatizzato e neppure attraverso l’interpretazione “costituzionalmente orientata” degli artt. 68 e 70, d.P.R. n. 3/1957, perché l’interpretazione costituzionalmente orientata e’ possibile quando di un testo normativo sono possibili più opzioni ermeneutiche mentre nel caso di specie la norma pone un periodo massimo dell’assenza per malattia, senza dare spazio a possibili eccezioni in via esegetica.
Tuttavia, a fronte di tale analisi, il Supremo Consesso Amministrativo siciliano ritiene di porre come ostativa alla decisione della controversia l’unica residua questione che la causa pone in conseguenza dell’accertamento di fatto desunto all’esito dell’istruttoria, ovvero che:
a) che se nel periodo di assenza per malattia non fosse stato computato il periodo non computabile ai sensi del citato art. 35,comma 14, C.C.N.L. 2006 – 2009 – comparto Università’, ma computabile invece ai sensi dell’art. 68 t.u. n. 3/10957, la ricorrente non avrebbe perso il posto di lavoro;
b) che la patologia tumorale di cui è stata affetta la ricorrente rientra nella fattispecie astratta delineata dall’art. 35, comma 14, C.C.N.L. 2006 – 2009 – comparto Università sicché ove la ricorrente fosse stata una dipendente in regime di pubblico impiego privatizzato, avrebbe potuto usufruire del beneficio ivi previsto (non computabilità di certi periodi di assenza per malattia nel c.d. periodo di comporto), mentre non ne ha potuto fruire, trattandosi di dipendente in regime di diritto pubblico non privatizzato;
c) non rileva che gli arti. 68 e ss. n. 3/1957 consentono di fruire di periodi di aspettativa a titolo diverso dalla malattia perché in punto di fatto la ricorrente ne aveva già fruito prima che insorgesse la patologia tumorale, e dunque non poteva più avvalersene per assentarsi per le cure oncologiche e perché in punto di diritto si tratta di istituti giuridici diversi, e dunque non comparabili; al fine della verifica della violazione dell’art. 3 Cost. occorre comparare “poste omogenee” e segnatamente i periodi di assenza per malattia consentiti per il pubblico impiego in regime di diritto pubblico e per quello in regime di diritto privato, e i relativi criteri di computo; la comparazione evidenzia che il regime della contrattazione collettiva è più favorevole rispetto a quello posto dalle norme primarie per il pubblico impiego non contrattualizzato.
Nella qualificazione dei requisiti propri della questione di legittimità costituzionale è proprio il giudice amministrativo a focalizzarsi sull’inadeguatezza della normativa in vigore applicabile rispetto alla pratica necessità della ricercatrice universitaria di accedere a trattamenti sanitari salvavita senza che i relativi periodi di assenza dal servizio siano inclusi nel periodo di comporto.
La questione di legittimità, infatti, non è posta in relazione alla finalità caducatoria dell’atto amministrativo ma alla ritenuta necessità di garantire il diritto della lavoratrice di sottoporsi ad un trattamento terapeutico che per sua oggettiva natura e funzione, in quanto correlato alla cura di una patologia tumorale e tale da produrre effetti invalidanti, comporta la necessità di assentarsi dal servizio senza che i giorni di assenza dal servizio siano computati ai fini del periodo di comporto.
Ad avviso del Consesso Amministrativo la comparazione tra il regime pubblico e quello privato contrattualizzato determina una discriminazione irragionevole, censurabile ex artt. 3 e 32 della Costituzione sul presupposto che solo nell’ambito del pubblico impiego privatizzato il rinvio alla contrattazione collettiva garantisce un livello di tutela più elevato del diritto del lavoratore rispetto a quello previsto dalla normativa vigente.
Il sindacato del giudice amministrativo integrato dalla incidentalità del controllo di legittimità costituzionale produce, dunque, l’effetto di concretizzare il giudicato amministrativo dal momento che la retroattività della pronuncia di legittimità costituzionale, per come la questione è stata posta e determinata, persegue l’effetto diretto di garantire il diritto rivendicato e non anche un mero interesse legittimo correlato all’annullamento di un atto amministrativo.
La decisione della Corte tra ragionevolezza e razionalità.
La questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo introduce, dunque, un sindacato sulla ragionevolezza del contesto normativo che disciplina i criteri di computo del periodo di comporto con riguardo alla specifica disciplina delle assenze determinate dalla sottoposizione a terapie salvavita o dovute ai conseguenti effetti invalidanti che rifugge la tecnica del bilanciamento dei diritti e non dà vita ad alcuna tecnica interpretativa e argomentativa che consente il necessario ragionevole contemperamento di una pluralità di interessi costituzionali concorrenti.
Ad avviso della Corte, infatti, “i due tipi di rapporto di lavoro che vengono in rilievo presentano caratteristiche strutturali che con l’andare del tempo si sono sempre più differenziate, e ciò lungi dal potersi considerare una anomalia, suscettibile di censura ai sensi del principio di uguaglianza, risponde alle obiettive differenze di status, legate al carattere privatizzato o meno del rapporto. È questo, in particolare, che è avvenuto nel caso di specie in cui esistono due diverse discipline delle complessive relazioni fra malattia e rapporto di lavoro, discipline espressione di delicati punti di equilibrio, che sono legati alle specificità del relativo rapporto, e che pertanto non sono suscettibili di un confronto diretto”.
La diversità strutturale e funzionale tra le due tipologia di impiego, dunque, è di per sé idonea a giustificare la perdurante esistenza di differenze relative alla disciplina giuridica del rapporto sicché non vi è ragione per sindacare sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza situazioni differenti che sono effettivamente assoggettate a discipline differenti in ragione della loro irriducibile diversità.
Proprio per le stesse motivazioni la Corte non ritiene possibile assumere il contenuto di una delle due discipline – nella specie quella contrattuale – a tertium comparationis, non essendo in alcun modo possibile una sua valutazione isolata dal contesto.
Tuttavia, il mancato riconoscimento del periodo di comporto manifesta un’intrinseca irrazionalità che lo rende costituzionalmente illegittimo per violazione, sotto questo diverso profilo, dell’art. 3 Cost., con assorbimento del residuo parametro (art. 32 Cost.).
Svincolandosi dal bilanciamento dei diritti la Corte svolge un sindacato sulla intrinseca razionalità della normativa in vigore che supera – senza rinnegarlo – il ragionamento giuridico logico-formale, tipico di una concezione del giudicare in termini sillogistici.
La razionalità intrinseca intesa come coerenza interna e proporzionalità non è riducibile alla razionalità sillogistico-deduttiva di tipo matematico, alla quale per lungo si è tentato di ricondurre la funzione giurisdizionale nella tradizione di civil law, piuttosto come esigenza di non contraddizione dell’ordinamento.
Razionale e ragionevole sono due aggettivi che esprimono, entrambi, conformità a ragione; tuttavia non si tratta di termini equivalenti e interscambiabili, perché essi presuppongono una diversa idea di ragione: «the rational corresponds to mathematical reason […that] owes nothing to experience or to dialogue and depends neither on education nor on the culture of a milieu or an epoch»(Sul punto, espressamente, M. Cartabia, che a sua volta rinvia a Ch. Perelman, ibidem pp. 117-118: « The concept of rational, which is associated with self evident truths and compelling reasoning is valid only in a theoretical domain. […] What is unreasonable is always unacceptable in law: the existence of this framework makes it impossible to reduce the legal system to a formal positivistic concept» .
L’irrazionalità intrinseca a cui rinvia la Corte Costituzionale è una vera e propria irragionevolezza che si colloca sul raffronto tra la normativa in vigore e la positivizzazione normativa contenuta nella contrattazione collettiva che più che tradursi in un innalzamento del livello di tutela apprestato e garantito al lavoratore costituisce l’unica forma di garanzia apprezzabile in un contesto quale quello contemporaneo avuto riguardo alla causa dell’assenza del lavoratore dall’impiego.
Lo sguardo della Corte Costituzionale, infatti, si amplia al generale sistema di regolamentazione contrattuale ed esige un intervento legislativo diretto ed immediato nel senso suggerito dalla contrattazione collettiva vigente a sua volta destinata ad essere superata dalla sua successiva riformulazione.
Così, se da un lato la sentenza si spinge a legittimare il fisiologico esercizio della contrattazione collettiva nel senso legittimato costituzionalmente, dall’altro responsabilizza il legislatore ad un intervento normativo razionalizzante e positivizzante in grado di garantire la proporzionalità di una disciplina giuridica rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti, onde evitare che solo l’intervento del sindacato di legittimità costituzionale possa consentire l’assorbente garanzia del diritto alla salute ex art. 32 Costituzione.
Senza assumere le caratteristiche di un giudizio concreto, la Corte Costituzionale si giova, dunque, della prospettiva monitoria suggerita dal giudice amministrativo per corroborare le dinamiche della contrattazione collettiva esaltandone non solo la capacità di infiltrarsi nelle lacune del sistema normativo ma di sollecitare una reale interazione tra la norma e i suoi processi produttivi o riproduttivi, specie in un contesto storico come quello contemporaneo al fine di orientare verso una maggiore positivizzazione la proliferazione degli interventi normativi emergenziali e/o correttivi.
Svolgendo il proprio ruolo di interlocutore del legislatore e del sistema giuridico la Corte ricorre al controllo della rispondenza di una regola, o della sua mancanza. non ad un’altra regola ma ad un principio costituzionale, ad un valore che viene sensibilmente desunto dalla contrattazione collettiva, espressiva di una realtà giuridica accreditata e idonea a esplicare una necessaria influenza dapprima sulla cultra giuridica e in seguito sulla normativa.
La sentenza rappresenta un invito al legislatore ad aprirsi alla modernità che rinviene dalla realtà così come già regolata dalla contrattazione: così, se da un lato la contrattazione collettiva costituisce la sequenza motivazionale della decisione, dall’altro si pone come criterio al quale il legislatore ritardatario è tenuto ad ispirarsi per non esporsi ulteriormente al test di proporzionalità rispetto agli obiettivi che intende perseguire.
Avv. Anna Chiara Vimborsati – Foro di Taranto
Immagine tratta dal sito ilriformista.it