Di Dino Caudullo
Con una interessante ordinanza depositata lo scorso 17 gennaio, la Corte di Cassazione ha sollevato alcuni interrogativi circa la portata e l’applicazione del principio di non discriminazione nei confronti dei soggetti disabili, questa volta però dal punto di vista del caregiver.
Il fatto
Una lavoratrice caregiver di un congiunto disabile lamentava, che il datore di lavoro avrebbe mantenuto un trattamento differente rispetto ad altri colleghi ritenuti per motivi sanitari non idonei a rendere con le modalità ordinarie la prestazione lavorativa, assegnandoli a mansioni differenti, turni agevolati, etc.., negando ad essa questa possibilità, e negando altresì di essere eventualmente adibita anche a mansioni inferiori al fine di risolvere le difficoltà di proseguire la vita lavorativa.
Chi è il caregiver
Con il termine “caregiver familiare” si indica la persona responsabile di un altro soggetto, anche disabile od anziano, che non sia autosufficiente nello svolgimento degli atti quotidiani della vita, del quale si prende cura in un ambito domestico, organizzando e definendo l’assistenza di cui necessita tale soggetto.
Il caregiver del soggetto disabile, tuttavia, nel nostro ordinamento non gode di una tutela generale contro le discriminazioni e le molestie subite sul posto di lavoro in ragione dei compiti di cura cui deve far fronte, beneficiando soltanto di specifici istituti, tra i quali, i permessi mensili ed i congedi retribuiti, il diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, il rifiuto al trasferimento ad altra sede senza il suo consenso.
Quali obblighi per il datore di lavoro
Investita della questione, la Corte di Cassazione si è posta il problema se gravi sul datore di lavoro del caregiver, l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire anche in favore di questi il rispetto del principio della parità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori, e ciò anche alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n.18, la quale impone ai datori di lavoro pubblici e privati di adottare accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.
Le due tesi a confronto sulla direttiva 2000/78/CE
Sul punto si è posta all’esame della Suprema Corte una possibile duplice lettura della direttiva 2000/78/CE, che tutela le persone contro discriminazioni per disabilità sul posto di lavoro.
Secondo una prima tesi, il caregiver avrebbe il pieno diritto di avvalersi delle disposizioni nazionali che proteggono il disabile contro le discriminazioni lavorative, soprattutto degli artt. 2, comma 1, e 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, sulla scorta della lettura della sentenza Coleman della Corte di giustizia, la quale ha esteso la sfera di applicazione soggettiva della direttiva 2000/78/CE, che tutela le persone contro discriminazioni per disabilità sul posto di lavoro, pure ai soggetti strettamente legati a disabili che forniscano a questi ultimi parte essenziale delle cure di cui hanno bisogno.
Secondo questa lettura, il caregiver familiare di disabile potrebbe quindi godere della tutela prevista in favore del disabile stesso in presenza di discriminazioni sul luogo di lavoro e la relativa protezione ricomprenderebbe altresì il divieto di molestie di cui all’art. 2, n. 3, della direttiva 2000/78/CE.
Di contro, secondo la tesi opposta, la sentenza Coleman potrebbe essere interpretata nel senso di escludere il diritto del caregiver di disabile che sia vittima di discriminazione indiretta sul posto di lavoro, di pretendere dal datore di lavoro soluzioni ragionevoli per ovviare a tale discriminazione e, quindi, il corrispondente obbligo dello stesso datore di lavoro di prendere i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per eliminare la situazione denunciata.
Possibile una interpretazione estensiva della direttiva 2000/78/CE?
Secondo i Giudici di Piazza Cavour sarebbe però possibile anche un’interpretazione estensiva della direttiva 2000/78/CE e ciò sia in quanto il principio della parità di trattamento e l’ambito di applicazione ratione personae della direttiva 2000/78/CE non devono essere interpretati in senso restrittivo ,dato che la tutela che quest’ultima dovrebbe garantire sarebbe compromessa se un il caregiver potesse beneficiare solo di una protezione contro le discriminazioni lavorative dirette e non contro quelle indirette.
In secondo luogo, a sostegno di una interpretazione estensiva della direttiva si porrebbero anche ragioni logico sistematiche, in quanto la protezione contro la discriminazione diretta e quella contro l’indiretta sarebbero strettamente connesse, non potendovi essere una vera tutela antidiscriminatoria sul luogo di lavoro che non le contrasti sempre entrambe.
La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità
In questo contesto si inserisce la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (CDPD) del 2006, ratificata dall’Unione europea nel 2009, la quale non sembra attribuire rilievo alla distinzione fra discriminazione diretta ed indiretta quanto alla tutela della disabilità, per cui le due forme di discriminazione sarebbero strettamente connesse e non potrebbe esservi una vera tutela antidiscriminatoria sul luogo di lavoro che non le contrasti sempre entrambe.
Peraltro, aggiunge la Cassazione, con riferimento all’ordinamento italiano il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti delle persone con disabilità nel 2022 ha riconosciuto “le gravi conseguenze sulle persone con disabilità assistite che derivano dal mancato riconoscimento della figura del caregiver e di misure di protezione sociale effettive a suo favore (quali l’accesso a incentivi, fondi e al sistema pensionistico, la flessibilità degli orari di lavoro e nelle vicinanze della propria abitazione)”.
Il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti delle persone con disabilità ha infatti affermato che il riconoscimento e la tutela del caregiver familiare nella legislazione nazionale è precondizione essenziale alla realizzazione dei diritti della persona con disabilità e ha riscontrato una violazione da parte dell’Italia di alcun specifici obblighi previsti dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (Vita indipendente ed inclusione nella società del disabile, Rispetto del domicilio e della famiglia, Sul diritto ad adeguati livelli di vita e protezione sociale), formulando delle specifiche raccomandazioni all’Italia, inerenti la condizione di tutte le persone con disabilità e i loro caregiver.
I quesiti posti dalla Corte di Cassazione alla Corte di Giustizia UE
I Giudici di Piazza Cavour hanno quindi sottoposto alla Corte di Giustizia la questione se un’interpretazione del diritto dell’Unione che non consenta al caregiver familiare di ottenere tutela in presenza di una discriminazione indiretta sul posto di lavoro dovuta alla necessità di fornire le cure necessarie al detto disabile, limitando ogni protezione alle ipotesi di discriminazione diretta, tenga conto in maniera adeguata della ratifica, da parte dell’Unione, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità in conformità alla quale dovrebbe essere interpretata, per quanto possibile, la direttiva 2000/78/CE.
Conseguentemente, se fosse accolta siffatta interpretazione estensiva, la Cassazione ha chiesto di chiarire se detta tutela comporti la nascita, a carico del datore di lavoro del caregiver, dell’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire, anche in suo favore il rispetto del principio della parità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori.
Ed infine, in quest’ottica, ha altresì chiesto di chiarire se tale caregiver sia qualunque soggetto, appartenente alla cerchia familiare o convivente di fatto, che si prenda cura in un ambito domestico, anche informalmente, in via gratuita, quantitativamente significativa, esclusiva, continuativa e di lunga durata di una persona che, in ragione della propria grave disabilità, non sia assolutamente autosufficiente nello svolgimento degli atti quotidiani della vita o se, invece, la definizione di caregiver in questione sia più ampia o più ristretta.