TAR del Friuli Venezia Giulia, Sentenza n. 42 del 03.02.2021
Richiesta da parte delle organizzazioni sindacali di accedere ai dati disaggregati sulla distribuzione dei fondi propri degli istituti scolastici – Prevalenza della trasparenza sulla riservatezza in relazione ai dati economici
La recentissima pronuncia in commento era attesa, benché non si tratti di una decisione particolarmente innovativa nel panorama giurisprudenziale, in cui, anzi, si era già registrato un intervento analogo nel 2018 da parte del Consiglio di Stato[1], che però non era stato sufficiente a indirizzare il comportamento dell’Amministrazione, ancora restia a fornire i dati relativi ai compensi aggiuntivi erogati ai propri dipendenti, se non in forma aggregata.
I dati inerenti la distribuzione del FIS
In fondo, la decisione espressa dal Tribunale Amministrativo è piuttosto lineare e coerente con i principi generali dell’azione amministrativa: le organizzazioni sindacali, che hanno partecipato alla predisposizione dei criteri di riparto del fondo di istituto (FIS), hanno diritto ad accedere ai dati inerenti alla concreta distribuzione delle risorse erogate, anche in forma disaggregata, con l’indicazione specifica dei nominativi dei dipendenti che hanno ricevuto i compensi aggiuntivi e i relativi importi. Tale prerogativa delle oo.ss. non costituisce un controllo generalizzato sull’operato della Pubblica Amministrazione, vietato dall’art. 24, c. 3, della L. n. 241/1990, ma è preordinata alla verifica dell’esatta applicazione dei criteri di riparto stabiliti in sede di contrattazione integrativa.
Il principio, in sé considerato, sembrerebbe perfino ovvio alla luce delle facoltà che la legge attribuisce in via generale ai soggetti che partecipano al procedimento amministrativo. Eppure, le richieste di accesso provenienti dalle oo.ss. vengono spesso affrontate con una certa diffidenza e respinte sulla base di considerazioni legate all’attuale formulazione letterale delle disposizioni contenute nel CCNL “Istruzione e Ricerca” del 2018, nonché di argomentazioni legate alla tutela della riservatezza e ben espresse nel parere del Garante della privacy del 13.10.2014.
Al provvedimento in esame va allora riconosciuto il merito di aver affrontato una pluralità di questioni che rappresentano oggi, forse più che in passato, un punto di attrito nei rapporti tra i sindacati e gli istituti scolastici, vuoi per il mutato contesto normativo dovuto al superamento del CCNL del 2007, vuoi per la portata trasversale degli interessi coinvolti, che finiscono per sfociare nel terreno paludoso della riservatezza dei dati personali, la cui disciplina è stata oggetto da pochi anni di una profonda riscrittura.
Le norme di riferimento
Nel percorso argomentativo seguito dal Collegio, il primo snodo fondamentale è stata quindi l’analisi delle norme applicabili alla fattispecie.
Qualcuno ricorderà che il vecchio CCNL “Scuola” del 2007 regolava le relazioni sindacali a livello di istituzione scolastica determinando quali temi di interesse fossero soggetti a informazione preventiva, quali a contrattazione integrativa e quali a informazione successiva[2]. In tale sistema, mentre era affidata alla contrattazione con le rappresentanze sindacali la determinazione dei criteri per la ripartizione delle risorse del FIS, erano espressamente assicurate in sede di informazione successiva sia la comunicazione dei “nominativi del personale utilizzato nelle attività e progetti retribuiti con il fondo di istituto”[3], sia la trasmissione degli atti necessari alla “verifica dell’attuazione della contrattazione collettiva integrativa d’istituto sull’utilizzo di risorse”[4].
Come ha opportunamente rilevato il Consiglio di Stato[5], in un simile contesto si poteva ricavare piuttosto chiaramente il diritto dell’organizzazione sindacale firmataria del contratto integrativo d’istituto, di accedere a tutti i dati riguardanti la ripartizione dei fondi, anche senza dover invocare la disciplina generale dettata dalla L. 241/1990 in tema di accesso partecipativo, rispetto alla quale le norme contrattuali si ponevano come speciali.
Il nuovo CCNL Scuola
La questione si è però riproposta allorché il nuovo CCNL “Istruzione e Ricerca” del 2018, pur mantenendo invariata la previsione della contrattazione in merito ai criteri di riparto delle risorse, non ha però riprodotto l’espressa e specifica disposizione circa il diritto di conoscere i nomi dei dipendenti destinatari degli incarichi e delle forme di retribuzione aggiuntiva gravanti sul FIS.
Ecco allora che l’elisione dell’espresso obbligo di comunicazione è stata spesso recepita dall’Amministrazione come la facoltà di limitare l’ostensione dei dati inerenti al riparto del denaro pubblico ad una summa, con un grado di approfondimento minore, trasmettendo le informazioni in forma aggregata e omettendo la quantificazione degli emolumenti attribuiti a ciascun dipendente. Tale prassi, abitualmente giustificata sulla base di una (erronea) necessità di tutela di riservatezza circa i dati economici riconducibili ai dipendenti, non permette però, in concreto, la verifica dell’esatta applicazione delle regole di riparto che le oo.ss. hanno contribuito a creare, impedendo “un controllo puntuale e completo circa la destinazione degli importi costituenti i trattamenti economici accessori”[6].
L’opinione del Garante della privacy
D’altro canto, questo comportamento è stato favorito anche dall’opinione del Garante della Privacy, che già con un suo parere del 13.10.2014 ammise la pubblicazione dei dati in forma aggregata, e anche dell’ANAC, le cui linee guida riguardanti l’applicazione dell’istituto dell’accesso civico individuano l’oscuramento dei dati personali dei dipendenti tra le buone pratiche che la Pubblica Amministrazione deve porre in essere, quando vi sia la possibilità che dall’ostensione completa dei dati possa derivare un pregiudizio per le persone coinvolte.
Tuttavia, si deve considerare che i due provvedimenti citati, abitualmente ricondotti agli interventi di soft law, non possiedono il carattere della vincolatività, per quanto l’autorevolezza delle fonti manifesti una forte influenza su organi e uffici chiamati a gestire i procedimenti. Naturalmente, questa moral suasion non può mai giustificare la violazione di norme e principi di fonte legale.
Ecco allora che il Tribunale Amministrativo per il Friuli Venezia Giulia è stato chiamato (anche) a valutare se l’introduzione del nuovo CCNL “Istruzione e Ricerca” abbia effettivamente lasciato una lacuna sul punto controverso e individuare le regole applicative che l’Amministrazione è tenuta oggi a seguire.
Le due tesi contrapposte
La sentenza in commento cita le due tesi opposte che le parti hanno avanzato sul punto.
Da un lato, l’Amministrazione ha sostenuto che la mancata riproposizione delle disposizioni che espressamente sancivano la conoscibilità dei “nominativi del personale utilizzato nelle attività e progetti retribuiti con il fondo di istituto” e il dovere di agevolare la “verifica dell’attuazione della contrattazione collettiva integrativa d’istituto sull’utilizzo di risorse” avrebbe determinato l’abrogazione di quell’obbligo che il Consiglio di Stato aveva a suo tempo individuato con la pronuncia citata.
A questa impostazione è stata opposta una diversa interpretazione, secondo la quale il vuoto venutosi a creare dovrebbe essere colmato dalle disposizioni del precedente CCNL del 2007, in applicazione del rinvio contenuto nell’art. 1, c. 10[7], del CCNL del 2018. Ciò in quanto tali regole apparirebbero compatibili con il rinnovato contesto normativo: l’art. 22 del CCNL del 2018 parrebbe infatti voler confermare in toto il procedimento di formazione dei criteri di riparto dei fondi, quanto a competenze e modalità, senza però fornire alcuna indicazione relativa alla fase della cd. informazione successiva, per la quale dovrebbe quindi operare il richiamo alle vecchie regole.
La “terza via” adottata al Tar Friuli
Il Tribunale adotta invece una terza soluzione, ritenendo che un obbligo informativo che abbia ad oggetto i dati in forma individuale sia comunque ricavabile dall’interpretazione delle disposizioni del CCNL attualmente vigente, poiché, da un lato, questo attribuisce un diritto all’informazione che si conforma quale “presupposto per il corretto esercizio delle relazioni sindacali e dei relativi strumenti” (art. 5, c. 1, del CCNL) e, dall’altro lato, la documentazione contenente i dati in forma aggregata o parziale appare insufficiente ai fini dell’esercizio delle prerogative sindacali di verifica.
Pertanto, l’obbligo della completa ostensione dei dati disaggregati si ricaverebbe direttamente dal Contratto collettivo del 2018, e ciò “in ragione del nesso di strumentalità che esiste tra “informazione” ed “esercizio delle relazioni sindacali””[8].
La conseguenza immediata del principio espresso dal Tribunale è che, nel caso che interessa, il diritto di accesso alla documentazione è riconosciuto e regolato dalle norme contrattuali, prima ancora che dalle regole generali di cui alla L. n. 241/1990, le quali, tuttavia, avrebbero condotto alla medesima conclusione, come implicitamente aveva ammesso il Consiglio di Stato nella decisione del 2018.
I presupposti per l’accesso agli atti
Il Tribunale si sofferma comunque sulla verifica dei presupposti che legittimano l’ordinario accesso ai documenti ai sensi dell’art. 22 della L. n. 241/1990 e, in tal senso, qualifica come diretto, concreto e attuale l’interesse delle oo.ss. a verificare la congruità tra quanto contrattato e quanto corrisposto ai dipendenti. Allo stesso tempo, la “situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, che a norma dell’art. 22, c. 1, lett. b) della Legge 241/1990[9] deve correlarsi al suddetto interesse, viene individuata nel “diritto all’informazione dell’associazione sindacale sulle materie nelle quali si esplica la contrattazione collettiva”[10].
Ecco quindi che il mutamento del contesto normativo viene affrontato e risolto fornendo una soluzione del tutto analoga a quella già prospettata in relazione al precedente regime.
Altrettanto interessanti sono poi le argomentazioni con le quali è stata confutata la tesi dell’Avvocatura, secondo la quale il sistema normativo posto a tutela della riservatezza impedirebbe la comunicazione alle oo.ss. delle informazioni disaggregate.
Va rilevato che, dinanzi alle istanze di accesso ai dati relativi ai compensi dei dipendenti, le resistenze maggiori che vengono opposte dagli istituti e dagli stessi dipendenti, interpellati in quanto direttamente interessati, sono spesso declinate proprio sul piano della tutela della riservatezza. Troppo spesso, però, il tema della privacy è ancora causa di equivoci circa l’oggetto della sua protezione, i suoi limiti e il suo contemperamento rispetto a tutti gli altri interessi con i quali si ponga in conflitto.
È ovvio che il compito del titolare del trattamento non è certo quello di dover nascondere i dati personali degli interessati a fronte di ogni istanza di accesso, bensì quello di saper valutare il peso delle esigenze in gioco e di individuare l’interesse prevalente nel caso concreto, tenuto conto della natura delle informazioni richieste e della finalità dell’accesso. L’attività non è sempre semplice, se si considera che persino le indicazioni provenienti dall’Autorità preposta a fornire i chiarimenti sul tema sono state sconfessate dalla giurisprudenza amministrativa.
Infatti, è proprio da un parere del Garante per la protezione dei dati personali che è stata tratta la tesi dell’Amministrazione, che vorrebbe far prevalere il riserbo sui dati individuali rispetto alle esigenze di trasparenza nei procedimenti amministrativi. Una nota del 13 aprile 2014, resa a seguito di un quesito proveniente da rappresentanze sindacali, in ordine a una questione sovrapponibile a quella trattata nella sentenza in esame, ha infatti affrontato il problema analizzando la disciplina contenuta nel d.lgs. n. 163/1996, secondo la sua formulazione anteriore alla profonda riforma apportata con il Regolamento UE 2016/679, e rapportando ad essa le disposizioni contenute nel vecchio CCNL “Scuola” del 2007, nella parte attinente alle facoltà di accesso alle informazioni da parte delle oo.ss., di cui si è detto in precedenza.
L’Autorità Garante ha quindi ritenuto di poter concludere che “dal quadro normativo di riferimento non emerge alcuna specifica fonte normativa o negoziale che preveda espressamente la comunicazione dei compensi accessori erogati individualmente.
Né, a tal fine, può essere invocata la lettera o) dello stesso articolo[11] che si limita a prevedere la sola facoltà per le sigle sindacali di “verifica[re] […] l’attuazione della contrattazione collettiva integrativa d’istituto sull’utilizzo delle risorse”, non già la specifica comunicazione dell’ammontare degli emolumenti percepiti dal singolo docente, atteso che il ruolo delle organizzazioni sindacali […] non presuppone la conoscibilità di dati di dettaglio in ordine alle voci di spesa ovvero ai mandati di pagamento in favore del singolo lavoratore”[12].
Eppure, la lettura contrasta nettamente con l’interpretazione che il Consiglio di Stato ha dato delle medesime norme e che ha condotto i Giudici alla soluzione opposta.
La riservatezza dei dati personali
L’impressione è che l’equivoco stia nel presupposto del ragionamento: il Garante muove infatti dalla convinzione che le esigenze di riservatezza dei dati personali dei dipendenti possano essere superate soltanto in presenza di una disposizione normativa specifica, che espressamente sancisca l’obbligo di trasmissione delle informazioni individuali. Inoltre, il ruolo che viene riconosciuto alla rappresentanza sindacale ricorda più quello di un osservatore esterno, piuttosto che di un soggetto che partecipa a pieno titolo al procedimento.
In realtà, questa impostazione sembra trascurare i criteri ermeneutici che consentono di trovare la regola di diritto applicabile al caso concreto in via interpretativa, dei quali appare opportuno ricordare almeno l’art. 1363 c.c.[13], secondo cui le disposizioni contrattuali, come sono quelle incluse nei contratti collettivi, vanno interpretate attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto. Oltre a ciò, avendo riscontrato (erroneamente) l’assenza di una norma specifica, omette poi di considerare la riconducibilità della fattispecie alle norme generali e, quindi, di interrogarsi circa la sussistenza delle condizioni che consentono di considerare le oo.ss. come parti del procedimento volto al pagamento delle retribuzioni accessorie gravanti sul FIS: la qualità di parte, riscontrata poi dalla Giurisprudenza amministrativa, permette di attribuire a tali soggetti i diritti di intervento nella procedura e d’accesso agli atti e garantiti dall’art. 10 della L. n. 241/1990.
Pertanto, secondo il Tribunale, non è dirimente “la mancata menzione, nei contratti collettivi nazionali o locali, di un obbligo di informazione che abbia ad oggetto specificamente i dati in forma individuale, giacché un siffatto può ricavarsi in via interpretativa”[14].
Interrogandosi poi sull’esistenza di circostanze idonee a ostacolare o escludere il diritto di accesso, la sentenza in commento si è dovuta quindi soffermare sulla natura dei dati personali cui le oo.ss. intendevano accedere, evidenziando che la fattispecie trattata esula dalle ipotesi per le quali il codice della privacy impone una tutela rafforzata, la quale è riservata ai dati c.d. sensibilissimi, quali i “dati genetici, relativi alla salute, alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona” di cui all’art. 60[15] del citato testo normativo. Al di fuori di tali ipotesi, deve invece operare il rinvio alla disciplina ordinaria di cui all’art. 24 della L. n. 241/1990, che garantisce sempre “l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici” (art. 24, comma 7), introducendo una maggior cautela in riferimento ai soli dati “sensibili e giudiziari”, dai quali sono senza ombra di dubbio escluse le informazioni di carattere retributivo.
Le due categorie costituiscono speciali tipologie di dati personali, verso le quali è indirizzata una particolare cautela. La qualificazione di un’informazione come dato sensibile, in particolare, deriva dalla connessione della stessa con aspetti della vita attinenti ai diritti e alle libertà fondamentali, dovendosi includere nella categoria i “dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale”, nonché i dati genetici, quelli biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, i dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale[16].
I dati meramente economici esclusi dalla protezione rafforzata
Sotto questo profilo, come ha rilevato il Tribunale, sono dunque esclusi da ogni forma di protezione rafforzata i dati meramente economici, inerenti agli incarichi ricevuti e alle retribuzioni aggiuntive percepite dai pubblici dipendenti[17].
Conseguentemente, l’interesse a mantenere segrete le informazioni personali, invocato in particolare dal personale che ha ricevuto incarichi e compensi, prima ancora che dagli istituti cui sono rivolte le istanze di accesso agli atti, è costretto a soccombere rispetto alle esigenze di trasparenza affermate dalle sigle sindacali firmatarie dei contratti collettivi integrativi e preordinate alla verifica dell’applicazione di quelle regole che le stesse sigle hanno contribuito a definire.
Non si prospetta nulla di nuovo, quindi, rispetto ai principi già affermati durante la vigenza del vecchio CCNL del 2007, ma l’Amministrazione potrà trarre comunque dalla decisione in commento un importante spunto per definire uno dei temi di forte e abituale conflitto nei rapporti sindacali.
Avv. Cosimo Calabrò – Foro di Pordenone
[1] Consiglio di Stato, Sent. 4417/2918
[2] Cfr. art. 6 del CCNL del Comparto Scuola per quadriennio normativo 2006-2009
[3] Art. 6, comma 2, lett. n) del CCNL cit.
[4] Art. 6, comma 2, lett. o) del CCNL cit.
[5] Nel caso specifico, i Giudici avevano rilevato che “alle disposizioni che disciplinano l’istituto del diritto di accesso ai documenti amministrativi contenute nel Capo V l. 241/1990 si aggiungono, nel presente caso, le peculiari disposizioni del CCNL e del contratto integrativo che regolano i rapporti sindacali con l’istituto Galileo Galilei di Dolo, di talché sono tali ultime disposizioni a dover essere anzitutto considerate ai fini dell’accoglimento o meno della richiesta di accesso formulata dalla CISL Scuola l’11 maggio 2017, rispetto alle norme generali contenute nella l. 241/1990”
[6] Punto 9 della sentenza in commento
[7] “Per quanto non espressamente previsto dal presente CCNL, continuano a trovare applicazione le disposizioni contrattuali dei CCNL dei precedenti comparti di contrattazione e le specifiche norme di settore, in quanto compatibili con le suddette disposizioni e con le norme legislative, nei limiti del d. lgs. n. 165/2001”
[8] Punto 12.1 della sentenza in commento
[9] La disposizione citata qualifica come interessati “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”
[10] Punto 7.4 della sentenza in commento
[11] Il riferimento è all’art. 6, comma 2 , del CCNL del 2007
[12] Cfr. Parere del Garante per la protezione dei dati personali del 13.10.2014
[13] “Le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto”
[14] Punto 10 della sentenza in commento
[15] “Quando il trattamento concerne dati genetici, relativi alla salute, alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi, è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale”
[16] Cfr. art. 9 del Reg. UE 2016/679.
Già il vecchio art. 4 del d.lgs. n. 196/2003, oggi abrogato, qualificava come dati sensibili “i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”
[17] Sul punto si segnalano gli interventi normativi che, a partire dal d.lgs. n. 150/2009, hanno inteso introdurre un principio di generale di trasparenza riguardo ai dati riferiti agli incarichi attribuiti ai pubblici dipendenti e alla distribuzione di premi e risorse, sviluppato poi con l’emanazione del d.lgs. 33/2013, in attuazione della delega contenuta nell’art. 1, c. 35, della L. 190/2012.
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